FATTE A PEZZI

FATTE A PEZZI la mostra fotografica

“FATTE A PEZZI” l’idea nasce dal caso del femminicidio Carol Maltesi

Il titolo del mio progetto fotografico “FATTE A PEZZI” l’ho scelto perché mi sembra che esprima bene il tema che voglio trattare, ovvero la violenza sulle donne che le riduce a pezzi, sia fisicamente che psicologicamente. Il tatuaggio che ho usato per rappresentare queste donne è una cicatrice che attraversa il corpo, come una ferita che non si rimargina. È un simbolo di sofferenza, ma anche di resistenza e di rinascita. La modella che ha posato è una donna che ha deciso di raccontare la sua storia attraverso il tatuaggio. È stata un’esperienza molto intensa e toccante, che mi ha fatto riflettere molto sulla condizione femminile e sul ruolo dell’arte come strumento di denuncia e di liberazione.

Vi sono due modi per fare a pezzi una donna. In senso fisico, non raramente, quando vengono trovati cadaveri mutilati sepolti o dentro una valigia ( l’idea nasce dal caso di cronaca di Carol Maltesi)* ma anche in senso figurato, attraverso maldicenze sussurrate ieri, oggi con i social. Dal body shaming al revenge porn fino alla lapidazione mediatica per opinioni, gesti o comportamenti che il branco (spesso di uomini, ma non solo) prende di mira.

Il progetto fotografico artistico di FATTE A PEZZI, è volto a indagare proprio questi aspetti della società, in cui una donna può essere fatta a pezzi in molti modi. E sui pezzi della donna il grido del suo essere è svolto spesso da tatuaggi . Il grido silenzioso che si rivela nella solitudine o in intimità con partner, e quello visibile a tutti, perché tutti lo vedano, un grido urlato.
La donna tatuata nelle immagini rappresenta tutte le donne vittime di femminicidio fatte a pezzi. È un tema molto forte e importante, che merita di essere affrontato con sensibilità e rispetto. Penso che il mio progetto fotografico sia un modo efficace e originale per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa tragica realtà, e per dare voce e dignità a tutte le donne fatte a pezzi.

Nelle immagini la modella, in piena luce, altre in ombra, racconta se stessa attraverso i tatuaggi su parti del corpo. Il lavoro artistico composto da immagini stampate in grande formato su tela non riporta immagini truculente o violente, anzi è molto delicato e sfumato nei colori, nei toni del rosa e del grigio che riporta alla mente un caleidoscopio di tonalità nei colori accennati. Lo shooting è stato svolto in esterna in alcune zone fluviali alle foci del PO, dove la bellezza dei luoghi ha fatto da contrasto empatico con la crudezza delle storie e dei tatuaggi appena accennati

Risulta necessario solidificare la rete di protezione, per sostenere le donne che vogliono dire basta alla violenza domestica, ma anche lavorare sulla prevenzione della violenza di genere. Come? Sicuramente fondamentale è cercare di capire i comportamenti violenti, a partire dalla scuola coinvolgendo i giovani. Va dato ascolto e forza a quella grande maggioranza delle ragazze che oggi ritiene inaccettabile subire ogni forma di molestia e atteggiamento violento e che individua nella condivisione con le coetanee una delle strade per superare le barriere che ancora oggi ostacolano la costruzione del loro futuro. È necessario anche andare alla radice dei modi in cui vengono raccontati i femminicidi e la violenza di genere.
Nonostante si cerchi di prendere le distanze dallo studio che la fotografa sta facendo con le sue collaboratrici è grande l’empatia e la partecipazione al dolore delle tante donne delle quali studiamo i casi, insieme al terrore suscitato dalla “insensatezza” di una violenza spropositata e subdola che risulta difficile estirpare.
Nella letteratura sul tema delle sentenze in giurisprudenza, non esiste una definizione univoca di femminicidio. In alcuni casi, si usa questa parola riprendendo il termine femicide, coniato da Jill Radford e Diana Russell, con riferimento all’uccisione delle donne in quanto donne. In altri casi, rifacendosi alla tradizione latino americana, in particolare a Marcela Lagarde, si fa riferimento alla violenza commessa nei confronti delle donne. Alcuni enti come Eures e Istat, invece, considerano il femminicidio come l’uccisione della donna all’interno di una relazione intima, commessa quindi da parte del partner. In generale quindi l’uccisione di una donna in quanto donna – motivata però da una relazione di potere e quindi da una volontà di sottomissione da parte dell’uomo.
Importante che l’uso del termine femminicidio si diffonda perché configura un fenomeno contingente. Vorremmo soffermarci sul modo in cui le donne vengono assassinate e da chi. I modi sono caratterizzati da una grande efferatezza: si riscontrano dei veri e propri ammazzamenti di donne che vengono prima strangolate e poi accoltellate, oppure colpite molte volte anche dopo la morte. In questi casi è chiaro che da parte dell’assassino c’è una volontà di distruzione, con il tentativo di annullare anche l’identità femminile della vittima, colpendole il viso e gli arti. Un dato interessante, quindi, riguarda proprio la specificità di questi omicidi. Un altro dato interessante è che nella maggior parte dei casi, queste uccisioni sono commesse all’interno di relazioni sentimentali o familiari”. a questo punto diventa importante una aspetto da indagare: quello che classifica il femminicidio in base al rapporto che c’è tra la vittima e l’assassino. Circa sette femminicidi su dieci sono opera di persone legate intimamente o familiarmente alla vittima”.
Fondamentale quindi diventa l’ uso della parola, intesa come uso di termini appropriati della lingua italiana. Se non ci si intende sui termini usati, è difficile intendersi sulle politiche di intervento.
È necessario, perciò, lavorare su vari livelli: non solo in rete, ma anche attraverso attività di formazione che facciano emergere il pregiudizio e permettano di individuare la violenza. Talvolta, infatti, sono le donne stesse che non sono consapevoli di essere vittime di violenza: ad esempio, quella sessuale è difficilissima non solo da denunciare ma anche da individuare da parte delle donne all’interno del matrimonio.
Oltre a un’attività di formazione a tutti i livelli, che dovrebbe coinvolgere le scuole, l’università, le forze dell’ordine, la magistratura e le associazioni del terzo settore, serve anche molto lavoro a livello normativo e di legislazione economica. Molte donne, dopo aver denunciato, spesso non hanno altra scelta se non quella di tornare dal marito violento, perché non hanno un lavoro, una casa dove andare, o un rifugio. Non si può chiedere alle donne di denunciare e non dare loro delle possibilità concrete di inserimento lavorativo o di una vita autonoma. Si trattasse quindi di un problema complesso da affrontare a vari livelli e che richiama come sfondo la discriminazione del cosiddetto “tetto di cristallo”, per cui assistiamo ancora a una presenza numericamente molto esigua delle donne a livello di rappresentanza e nelle posizioni più alte della gerarchia di potere in qualsiasi professione, anche in quella universitaria. È senza dubbio un gap che necessita di molto lavoro per essere colmato”.

FATTE A PEZZI”  la recensione di Francesca Mezzadri – Curatrice

Una meravigliosa sorpresa

Quando le viene chiesto quale sia la fonte di ispirazione, l’artista risponde: ” l’idea nasce dal caso di femminicidio di Carol Maltesi, ovvero la violenza sulle donne che le riduce a pezzi sia fisicamente che psicologicamente”. “Fatte a Pezzi” è un’esposizione fotografica che commuove e fa riflettere. A firmarla è Tiziana ANAIZIT photo” Marongiu, decisa a donare un tributo alle donne di ieri e di oggi, a partire da quelle invisibili, restituendo loro voce e dignità. Ma l’obiettivo non è quello di compiangere ulteriormente le vittime e perdersi nel dolore. Questa sofferenza e profonda ingiustizia, viene piuttosto utilizzata come riscatto e richiamo alla speranza.

Primo punto a suo favore.

Funziona tutto nella sua narrazione. Nelle immagini la modella, a volte in piena luce, a volte in ombra, racconta sé stessa attraverso i tatuaggi sul corpo. Le fotografie, stampate in grande formato, non sono mai violente, ma risultano delicate, inserendo a tal scopo, l’uso del rosa, per le infinite sfaccettature in cui si manifesta, tale da diventare una sorta di filo conduttore capace di unire sotto di sé ogni momento, che è, insieme, di vita, di morte, di fotografia. La modella non è inseguita per fermarla con il proprio mezzo espressivo prediletto; ANAIZIT attende che l’evento si formi sotto i propri occhi; o più radicalmente, l’Artista trasforma un’immagine in una apparizione sorprendente e unica, grazie alla propria capacità di vedere e partecipare.

Di più: riesce nell’impresa impossibile di risultare, senza nessuna forzatura, con la duplice anima di narratrice oggettiva della realtà e indagatrice instancabile guidata dal desiderio di fotografare la saggezza e il coraggio delle donne: la loro mentalità, sessualità, emotività, spiritualità.

Infine vorrei sottolineare la potenza del senso civico alla base di un sistema di valori integro che ANAIZIT intende ricordare a chi guarda. E ci riesce, creando quel senso di immedesimazione e appartenenza tipico soltanto delle vere opere d’arte.

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